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Scritto per noi: Tifoso emigrante di Giuseppe Favilla

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Era una sera di un giugno di tanti anni fa, quando dal porto, bagagli alla mano, con tante speranza ed altratanti timori, lasciai la città di Napoli.
Il detto recita: “Sai quel che lasci ma non sai quel che trovi”. Ed invece sapevo quello che avrei trovato, un lavoro.
Non diverso da migliaia di uomini e donne che avevano affollato i porti e le stazioni dei treni nel dopo guerra, mi accingevo ad intraprendere una nuova vita, perchè la mia terra mi aveva negato ogni possibilità.
Non per questo mi era mai passato per la mente di amarla di meno. Mi aveva dato tanto. La mia famiglia, i miei amici ed un numero enorme di bellissimi ricordi che sarebbero diventati un bagaglio di gioia da portare ovunque.
E proprio quella sera calda ed umida sarebbe stata lo spartiacque tra la mia vecchia vita e quella nuova, lontana da tutto ciò.
Poche le certezze, pochi anche i bagagli. Li avrei portati con me a poco a poco. Ma dovunque e sempre avrei portato con me, stampata nel cuore, la mia identità forte di napoletano, che per me non poteva prescindere dall’essere tifoso del Napoli.
E allora per non dimenticarlo, trovai un posto per la mia sciarpa azzurra tra le magliette ed i calzini.
Non potrò mai dimenticare il Maschio Angioino ed il castel Santelmo illuminati nel buio della sera, che laconicamente si allontanavano. Sapevo che la prossima volta che avrei rivisto Napoli, sarei stato solo un emigrato in visita ai parenti.
Fu difficile l’ambientamento in una città che non era la mia.
Solo dopo un pò, pian piano, cominciai ad inserirmi in quella che a forza doveva diventare la mia nuova realtà.
Internet ancora non era diffuso come lo è oggi, ed era difficile reperire notizie del Napoli, almeno quante ne avrei volute io, in clima di calcio mercato.
Desideravo una squadra forte, come tutti i tifosi naturalmante. Ma per me e tutti coloro che tifavano Azzurri fuori dalla prorpria città la faccenda era più delicata. Ero solo a gioire e soffrire, unico baluardo a difendere la mia squadra da critiche e sfottò.
Perchè diciamocela tutta, il calcio non è mai stato e mai sarà solo uno sport.
Ma spesso, ed in special modo per noi, motivo di orgoglio e di riscatto sociale.
Ricordo con tristezza l’anno in cui fummo retrocessi in serie “B”, e quelli che lo precedettero. Avevo creduto che quel periodo fosse solo una parentesi, e che il Napoli sarebbe tornato quello di Maradona. Ero convinto che bastasse stringere i denti, “tirare a campàre”, sopportare critiche, risatine ed umiliazioni, perchè un giorno saremmo tornati grandi. Come quando tutta l’italia e poi tutta l’auropa si era inchinata di fronte alla squadra di Re Diego .
Ma aimè la storia prese un’altra piega.
Mentre proseguiva la mia fisiologica integrazione, le vicende societarie trascinavano il Napoli in un limbo dalla durata interminabile. Prima Corbelli poi Naldi, ed infine il tribunale. Il Napoli era fallito. Il Napoli la cui società sportiva era nata nel 1926, non esisteva più.
Della squadra che mi aveva adottato, che mi aveva fatto piangere e gioire, arrabbiare ed esultare, era rimasto solo il ricordo su un’almanacco.
Non avevo mai pensato alla cancellazione. Era di gran lunga più dolorosa degli sfottò e delle denigrazioni. Non ci sarebbero stati neanche più quelli, solo il buio. E proprio quando il buio era diventato più denso, che una tenua speranza scuarciò le tenebre.
Appena tornato a casa dal lavoro, mi attaccavo alla televisione, al televideo, ingordo di informazioni, in attesa di una schiarita. E la schiarita arrivò.
Il noto cineasta Aurelio De Laurentis avrebbe acquistato il Napoli avvalendosi del lodo Petrucci. Il Napoli avrebbe ricominciato dalla serie C.
Non era propria la notizia che aspettavamo tutti noi. Ma il Napoli sarebbe tornato a calcare i campi di calcio.
Ero raggiante. Avrei rivisto le undici maglie azzurre correre e lottare nel nome di Napoli.
Devo dire di aver vissuto con intensità e speranza gli anni del Napoli Soccer.
Finalmente un presidente potente con un progetto serio, portato avanti da un grande dirigente generale.
Anche la delusione della mancata promozione del primo anno fu solo un passo verso la rinascita.
Rianscita che passò per il difficile campionato disputato con Juve e Genoa, a contendersi un posto in “A”, sancito dall’immensa gioia della promozione nella massima serie. Il Napoli era di nuovo tra le grandi.
Avrei voluto essere per le strade di Napoli a festeggiare con i miei concittadini ebbri di felicità, ma mi accontentai delle immagini televisive e dei racconti di chi c’era.
In serie “A”, da allora sino ad ieri. Quante soddisfazioni d’avanti ad un televisore attendendo l’espolosione di gioia scandita dalla voce di Raffaele Auriemma.
Aspettando con ansia l’unica occasione annuale per vedere le undici maglie azzurre correre e lottare sotto i miei occhi, insieme agli altri tifosi del Napoli che nel corso degli anni si sono aggregati e che in ogni città del mondo, come solo noi sappiamo fare, non fanno mai mancare il calore a chi difende i nostri colori. Ma la soddisfazione più grande si materializzerà oggi, quando con mio figlio in braccio, figlio di un’altra terra, guarderò gli undici guerrieri lottare in europa, per coronare i sogni di tutti quelli che col Napoli sono nati e che porteranno nel cuore per sempre ovunque essi siano. Per sempre!
Aspettando il giorno in cui sarò allo stadio con mio figlio, a festaggiare il terzo scudetto avvolto dall’asordante calore del pubblico del San Paolo.
Giuseppe Favilla

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